lunedì 1 febbraio 2016

Correre per mangiare, mangiare per correre

Sollecitati da un’ascoltatrice, gli autori del Food Programme inseguono la dieta perfetta per gli atleti e gli appassionati di corsa. Le visioni riportate su quale sia l’alimentazione ideale sono contrastanti, tuttavia emergono utili indicazioni. Ascoltabile [qui]

Una predisposizione naturale

Quello che mangiamo conta per la qualità del nostro esercizio fisico, perciò è giusto chiedersi qual è la dieta ideale per chi vuole migliorarsi nella corsa. L’ascoltatrice Nicole percepisce cambiamenti nel proprio rendimento a seconda di quello che ha mangiato nelle ore precedenti l’allenamento. In primo luogo però, percepisce che la corsa, e in generale il movimento, sono una necessità per il corpo. Naturale, quindi, voler indagare se siamo nati per correre.
https://en.wikipedia.org

Lo ha fatto, tra gli altri, il giornalista Christopher McDougall, autore di “Born to Run” (2010). E la risposta è positiva: ci siamo evoluti per correre. Correvamo per mangiare, tutti insieme, ognuno con il proprio obiettivo e le sue competenze. Privi di artigli e zanne, non particolarmente forti né tantomeno veloci, i nostri antenati riuscivano a catturare, per esempio, i grandi erbivori, perché erano dotati di superiore resistenza nella corsa. Grazie alla capacità di mantenere bassa la temperatura corporea, gli individui del gruppo, femmine e maschi, giovani e meno giovani, potevano correre per ore, fino a sfiancare la preda.

Mangiare per correre, 365 giorni l’anno

Nota questa predisposizione, quello che mangiamo può fare la differenza? Inghilterra 1973, Brendan Foster batte il record del mondo sulle due miglia. Oggi sessantottenne, Foster ricorda la ricetta della bevanda che lui e i suoi compagni consumavano dopo gli allenamenti: una versione di “shandy” [birra con aggiunta di bibita analcolica] preparata con una bustina di zucchero, limonata, poco alcol e potassio. Prima della nutrizione sportiva, l’istinto, il piacere e la percezione delle necessità del proprio corpo guidavano le scelte alimentari. Oggi, in preparazione per le Olimpiadi di Rio, per la squadra britannica lavorano ventidue nutrizionisti che pianificano l’alimentazione degli atleti che parteciperanno ai giochi e quella degli atleti che gareggeranno nei prossimi anni. Perché, come dice il loro capo, Kevin Currell, per vincere una medaglia conta l’alimentazione, quella di ogni giorno dell’anno. Currell non ha dubbi, i nutrienti più importanti, quelli che garantiscono la contrazione muscolare, sono gli zuccheri, cioè i carboidrati, semplici o complessi. Questi, al crescere dell’intensità dell’esercizio, diventano il carburante principale (mentre, quando l’intensità dell’attività è minore, si consumano i grassi). Attraverso la ricerca nutrizionale, Currell e colleghi, vogliono capire se e come si può incrementare la riserva del carburante muscolare, oppure come fare in modo che il serbatoio si svuoti più lentamente.

Frugalità, snack clandestini e la visione del guru

Lontano da queste investigazioni da laboratorio, è legittimo chiedersi cosa mangiano gli atleti che dominano le gare di resistenza in tutto il mondo, i keniani. Adharanand Finn, autore di “Running with the Kenyans” (2013), per un periodo si è trasferito con moglie e figli in Kenya, a Iten, 2400 metri sul livello del mare, per vivere e correre insieme ai migliori atleti locali. Dalla cucina del campo, una baracca con il pavimento in terra battuta e un focolare di legna al centro, uscivano le stesse pietanze ogni giorno della settimana, senza variazioni. Il programma prevedeva sveglia alle cinque e mezzo del mattino e corsa di 40 km, una distanza che gli atleti locali coprivano in due ore e quindici minuti.
http://sites.psu.edu

Questa velocità elevata adottata in allenamento è “incredibile” nelle parole di Finn, considerate anche l’altitudine e la strada sterrata. Al rientro al campo, i corridori si ristoravano con una tazza di tè e rimanevano a digiuno fino all’ora di pranzo. Questo consisteva in un enorme piatto di fagioli e riso, con verdura cotta insieme ai fagioli. Dopo la corsa del pomeriggio, si consumava una cena composta nel medesimo modo, magari accompagnata da ugali, un porridge ottenuto cuocendo in acqua un tipo di farina, per esempio di mais, sorgo o miglio. Due corse al giorno, due pasti al giorno: per i keniani era sufficiente. Invece per Finn era troppo poco, e la fame lo costringeva a furtive integrazioni notturne con panini con burro di noccioline.

È naturale chiedersi quale parte abbia nel successo degli atleti keniani questo regime alimentare molto ricco di carboidrati, e se esso contribuisca in qualche modo al loro stile di corsa caratterizzato, racconta Finn, da rapidi cambi di ritmo durante la gara. Tanto diversa è questa dieta da quella, bassa in carboidrati e alta in grassi, adottata da altri corridori.

Le montagne di Creta (www.crete-greece.net)

Ispirato dai resistenti cretesi della seconda guerra mondiale, che per sfuggire ai nazisti coprivano di corsa distanze fino a 50 km per nascondersi nelle montagne, Christopher McDougall ha descritto in “Natural Born Heroes” (2016) un’alimentazione in cui prevalevano formaggio, burro, carne di agnello, olio d’oliva, e vegetali: grassi e proteine erano, secondo la ricostruzione di McDougall, maggioritari rispetto ai carboidrati raffinati. McDougall l’ha interpretata come una dieta ricca di nutrienti a lento rilascio di energia, e poi si è chiesto se qualcuno avesse mai tentato di adattare una dieta di questa composizione alle esigenze dei fondisti d’élite. Phill Maffetone, un chiropratico, lo aveva fatto consentendo, secondo McDougall, ad alcuni tra gli atleti statunitensi più vincenti degli anni ottanta e novanta di raggiungere il massimo rendimento. Il guru Maffetone suggeriva agli atleti, a cominciare dai partecipanti alle prime gare di triathlon Ironman, di eliminare dalla propria dieta gli zuccheri semplici e tutte le fonti di carboidrati raffinati. Nella sua visione, la nuova dieta avrebbe anche favorito la risoluzione di dolori alle ginocchia, mal di schiena, rigidità del tendine d’Achille, il tipo di problemi che induceva gli atleti a rivolgersi al chiropratico Maffletone. Per testare l’efficacia di questo metodo, Maffletone suggerisce di eliminare dalla dieta per due settimane tutti i cibi ad alto indice glicemico, per esempio la pasta e il riso non integrali, e poi biscotti e ciambelle varie. Se al termine di questo periodo ci si sente meglio, “più leggeri, più magri, più agili” nell’esperienza dello stesso McDougall, vuole dire che la nuova alimentazione fa funzionare meglio il nostro corpo. La teoria di Maffletone è che questa dieta, coniugata con un allenamento a bassa intensità, consenta l’accesso al nostro grande serbatoio di energia, le riserve di grasso.

Il nutriente giusto: energia per scattare e per recuperare

Tuttavia, secondo gli esperti del laboratorio che segue l’alimentazione della squadra britannica, una dieta alta in grassi e povera di carboidrati non è adatta a vincere medaglie olimpiche. Secondo il Dr Currell, per una corsa di resistenza di 100 miglia può avere la sua logica accumulare grassi da bruciare durante le svariate ore di corsa. Il caso degli atleti olimpici, però, è diverso. Il metabolismo dei carboidrati domina la quasi totalità delle discipline olimpiche, ci dice Currell, e la questione cruciale è la capacità, o l’incapacità, di modificare la velocità di svolgimento della prova. Gli atleti che vincono sono quelli che a un certo punto della gara hanno “attaccato”, cioè hanno cambiato velocità e gli altri non sono riusciti a stargli dietro. Ma, per modificare il ritmo, occorre bruciare carboidrati. Fin dalla fine degli anni novanta si sa che è sufficiente una settimana di dieta ad alto contenuto di grassi per alterare, diminuendola, la capacità di un atleta di cambiare ritmo durante una gara. Inoltre, una dieta ricca di grassi sembra inibire la capacità dei muscoli di rimodellarsi [adattandosi alle necessità di lavoro muscolare stimolate dagli allenamenti]. Perciò, secondo Currell, è poco credibile che la performance possa essere migliorata da una dieta ricca in grassi e povera di carboidrati protratta per un lungo periodo.

Anche l’alimentazione post-allenamento va curata. Un pasto composto di carboidrati e proteine è quello che ci vuole per un recupero più veloce, cioè per tornare a correre di nuovo entro poco tempo. Le riserve di glicogeno, il combustibile dei muscoli, saranno rigenerate, e le fibre muscolari riparate e rimodellate grazie alle proteine e utilizzando l’energia dei carboidrati.

Glicogeno: gli esagoni sono le molecole di glucosio, da https://www.rpi.com

Si è visto, infatti, che una sola ora di ritardo nel fornire un apporto nutrizionale adeguato dopo l’esercizio ha effetti negativi sul sistema immunitario e sulle ossa. Secondo Currell, l’alimento ideale per il recupero, in particolare dopo una corsa, è il latte: una miscela in acqua di carboidrati, proteine e calcio.

Sintonizzarsi sul corpo

Per molti anni l’ascoltatrice Nicole, cinquant’anni, più di sessanta chilometri a settimana, ha sperimentato con la dieta per capire cosa le dà più energia. Nella sua esperienza, cibi diversi producono risultati differenti. Oggi, dopo anni di dieta onnivora, quella della sua famiglia di origine, e poi di dieta vegetariana, si prepara per la maratona di Londra mangiando ortaggi, legumi, noci, semi e frutta, suddivisi in nove pasti al giorno. Questa dieta vegana di 2500-3000 kcal giornaliere, che possono aumentare fino a 4000 kcal dopo una corsa particolarmente lunga, è in parte ispirata da Scott Jurek [foto], campione di ultramaratone, vegano e autore di “Eat and Run” (2012).
vagan-magazine.com

Secondo Jurek, non sono l’allenamento o l’esperienza a dotarlo di una resistenza “super umana”, ma la scelta di ogni boccone, l’idea che diventiamo il cibo che mangiamo e che il cibo può cambiarci e cambiare la qualità della performance. Per esempio, Jurek ha scelto la dieta vegana perché ha notato una maggiore velocità di recupero dopo l’attività e perché, racconta, questa è la dieta che gli ha assicurato la continuità dei risultati nel tempo.

Chi non mangia carne non vince?


I ricercatori sono sicuri che per correre veloci e vincere i carboidrati sono irrinunciabili. L’esperienza di molti atleti, poi, dimostra che una dieta in cui prevalgono i carboidrati da cibi integrali si concilia con i grandi risultati, così come un regime vegano. È importante, poi, prestare attenzione a cosa si mette nel piatto quando si devono soddisfare le necessità di recupero dell'organismo che ha lavorato intensamente. Fondamentale è anche mangiare gli alimenti giusti ogni giorno. Se manca la motivazione, possiamo farci ispirare da Mo Farah, altro fondista vincente, che in un anno si concede un solo “hamburger celebrativo”. Per il resto immaginiamo che Farah sia capace di cucinarsi da solo un piatto di pasta integrale al pomodoro perché, come consiglia ancora Currell, che siano carboidrati o grassi, il miglior piano nutrizionale fallirà se la persona a cui è destinato è incapace di cucinare il proprio cibo.

giovedì 17 dicembre 2015

Grassi, “massimo piacere e buona salute”

La puntata del “Food Programme” dedicata ai grassi offre spunti di riflessione e … di azione. Sheila Dillon (a cui appartiene il virgolettato del titolo) intervista John Stein professore di fisiologia a Oxford, e Michael Mosley, medico, volto noto ai telespettatori britannici. I temi di rilevanza nutrizionale sollevati dalla trasmissione sono due. Il primo è la modificazione della tipologia dei grassi che oggi consumiamo più frequentemente che, nelle parole di Stein, avrà conseguenze pari al “cambiamento climatico”. Il secondo è la netta svalutazione, suggerita da nuova evidenza scientifica, degli oli che sono comunemente pubblicizzati come i migliori per friggere.

I grassi sono un costituente irrinunciabile della nostra dieta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda come fabbisogno biologico minimo di grassi il 15 per cento dell’introito energetico totale. L’EFSA (European Food Safety Authority, 2010) raccomanda di consumare ogni giorno grassi in quantità tale da fornire da soli tra il 20 e il 35 per cento del fabbisogno energetico. Ma non è solo la quantità a essere importante. Occorre rafforzare la consapevolezza che la qualità dei grassi che mangiamo è importante almeno quanto la quantità, poiché queste molecole non sono una mera fonte di energia. Infatti, i grassi, o lipidi, sono importanti come costituenti strutturali di tutte, ma proprio tutte, le nostre cellule, e come tali contribuiscono al loro buon funzionamento. Inoltre, sono lipidi alcune vitamine (per esempio la E e la K), e anche alcuni nutrienti essenziali (sostanze che dobbiamo assumere con la dieta), gli acidi grassi essenziali appunto. I nostri organi sono isolati termicamente e sostenuti dal grasso. Oltre a tutto questo, il grasso rappresenta anche un’importante fonte di energia.

Tutte queste funzioni sono svolte da molecole lipidiche diverse. Insomma, un “grasso” non vale l’altro. Con l’alimentazione dobbiamo assumere gli acidi grassi essenziali e anche i mattoni per fabbricare la molteplicità di molecole lipidiche che ci servono. Allora, quali grassi scegliere per esempio per condire e cucinare? In base ai criteri di prevenzione diffusi dagli enti pubblici che si occupano di salute, da qualche decennio ci teniamo a distanza di sicurezza dai grassi di origine animale come lardo, strutto e burro. Approfittando del discredito gettato su di essi, l’industria ha inserito nelle proprie ricette oli e grassi di origine vegetale che, quando diversi dall’olio di oliva, sono economicamente e tecnologicamente molto convenienti per i produttori di alimenti trasformati. Dopo anni di utilizzo massiccio, arrivano i risultati degli studi sugli oli vegetali e sui loro effetti sulla salute, e iniziamo a dubitare dell’opportunità di utilizzarli abitualmente.

Una delle maggiori preoccupazioni circa il contenuto di lipidi della nostra alimentazione è costituita dallo sbilanciamento tra due categorie (o serie) di grassi, gli “omega-3” e gli “omega-6”. John Stein, professore emerito di fisiologia all’università di Oxford, sostiene che il rapporto ideale tra omega-6 e omega-3 nella dieta è di 1:1, e che questa era probabilmente la proporzione tra le due serie durante la nostra evoluzione.

Oggi, a causa del forte aumento in quello che mangiamo di grassi omega-6 (principali fonti ne sono i prodotti alimentari più o meno trasformati), l’equilibrio si è spostato verso questi ultimi, mentre non consumiamo abbastanza omega-3. Per esempio consumando il pesce solo occasionalmente, la maggior parte di noi si priva di una fonte di acidi grassi omega-3 polinsaturi a catena lunga pronti all’uso, necessari a svolgere fondamentali ruoli strutturali e funzionali. La conseguenza, continua Stein, è che laddove nel nostro organismo dovrebbe esserci per esempio l’omega-3 DHA, troviamo un acido grasso omega-6 che è privo delle caratteristiche chimico-fisiche ed elettriche che un omega-3 possiede, caratteristiche che sono importanti per il buon funzionamento, per esempio, delle membrane cellulari. Secondo il professor Stein, è l’epidemiologia a mostrare i riflessi più interessanti della questione: gli studi mostrano come il consumo abituale di cibi ricchi di omega-3 sembra poter prevenire malattie come Alzheimer, depressione, e disturbi dell’apprendimento. A essere importante, lo ripetiamo, è l’equilibrio tra gli acidi grassi delle due serie. Con l’alimentazione possiamo favorire lo spostamento dell’equilibrio verso gli omega-3. Per esempio, suggerisce il professor Stein, tra gli oli da condimento è meglio scegliere l’olio d’oliva che, grazie alla sua composizione (in cui prevalgono gli acidi grassi della serie omega-9), può aiutare la sintesi degli omega-3 che ci servono senza presentare gli effetti avversi degli oli ricchi in omega-6.

Gli oli alimentari in commercio sono moltissimi: avocado, argan, canapa, colza, girasole, mais, sesamo, oliva, cocco, e persino senape (che, però, in Europa può essere commercializzato solo “per uso esterno”). La scelta, se si desidera un’alternativa salutare all’olio d’oliva, dovrebbe cadere secondo Stein su oli che siano fonti di acidi grassi omega-3 a catena corta, in particolare su fonti di acido alfa-linolenico, che è uno dei due acidi grassi essenziali per noi esseri umani (l’altro è l’acido linoleico). L’acido alfa-linolenico è molto abbondante per esempio negli oli estratti dai semi di lino e di chia.

Per l’utilizzo a crudo il messaggio è chiaro: olio d’oliva. E per le cotture? Sugli scaffali dei supermercati troviamo un’enorme varietà di miscele di oli che, secondo quanto si legge sull’etichetta posta sul fronte del contenitore, assicurano una frittura perfetta, salutare e moderna. Durante la frittura l’olio raggiunge una temperatura tra i 170 e i 190 °C. L’esposizione a temperature così alte comporta delle modificazioni chimiche negli oli vegetali che, lo ricordiamo, sono delicati e sensibili perfino all’azione ossidante della luce solare. Sono proprio il tipo e il grado di tali modificazioni che dovrebbero suggerire i criteri di scelta. Su questo argomento è interpellato il Dr Michael Mosley, autore insieme ad altri colleghi di un esperimento sugli oli utilizzati per le cotture casalinghe.

Mosley e colleghi hanno chiesto a volontari di cucinare a casa propria con vari oli e grassi. Nell’esperimento sono stati utilizzati olio di mais, olio di girasole, e olio di vinacciolo, tutti e tre molto ricchi in acidi grassi polinsaturi; olio d’oliva (molto ricco in monoinsaturi), burro e grasso d’oca (ricchi in acidi grassi saturi). Ai partecipanti è stato chiesto di conservare per le analisi i residui della cottura. Le analisi hanno rivelato che negli oli più ricchi di polinsaturi, per esempio gli oli di girasole e di mais, l’esposizione alla temperatura di cottura determina la formazione di abbondanti aldeidi. Le aldeidi sono sostanze tossiche, in particolare sono associate a un maggior rischio di malattie cardiovascolari e cancro. Invece dove la composizione è dominata da acidi grassi saturi, noti per essere più stabili alle alte temperature, la quantità di aldeidi era molto inferiore. Ugualmente, un alto contenuto in acidi grassi monoinsaturi era associato a minore quantità di aldeidi. In conclusione i “perdenti” di questo confronto sono stati due tra gli oli più comunemente utilizzati per friggere, cioè l’olio di semi di girasole e l’olio di mais. Tra i “vincitori” ci sono invece l’olio di oliva, il burro e il grasso d’oca. Questi sono superiori anche sul piano del sapore: infatti, a parità di metodo di preparazione, i cibi cucinati con i grassi/oli più salutari, secondo i partecipanti all’esperimento, avevano un sapore migliore. Mosley e colleghi hanno poi eseguito prove di riutilizzo degli oli di frittura. Questi test hanno confermato l’inopportunità del riutilizzo, poiché una nuova esposizione alle alte temperature causa incremento nel contenuto di aldeidi.

Le indicazioni sono chiare e nel privato delle nostre cucine possiamo prendere le decisioni giuste. Invece, per i prodotti alimentari industriali (per esempio merendine, biscotti, prodotti precotti panati) è cruciale la lettura dell’etichetta e, per spingere l’industria verso l’utilizzo di ingredienti migliori, sono fondamentali la rinuncia all’acquisto e la ricerca di prodotti alternativi. Tali scelte preventive non sono applicabili ai prodotti in vendita in bar, pasticcerie e panetterie. Però vale la pena ricordare che è lecito formulare le domande: “Che olio avete usato per friggere?”, “Che olio o grasso è stato utilizzato per cucinare questa pizza?”, “Per favore, potrei consultare il libro degli ingredienti?” Formulate in maniera discreta, queste domande dovrebbero, piano piano, perdere il sapore dell’indagine con scopo diffamatorio immaginato dai gestori degli esercizi che vendono prodotti sfusi.


I grassi conferiscono ai cibi una particolare piacevolezza al palato e, nelle nostre preparazioni, aiutano i diversi ingredienti a integrarsi. Da un punto di vista nutrizionale, abbiamo visto che sono importantissimi, tanto che a qualunque età, una dieta povera, o totalmente priva, di grassi non è compatibile con la buona salute. Le testimonianze presentate qui rinnovano la fiducia in un pilastro della cultura alimentare mediterranea, l’olio d’oliva. Invece occorre consumare molto meno frequentemente i prodotti di un’industria che sceglie gli ingredienti più a buon mercato e poi vanta favolose, ma assenti, proprietà nutrizionali.

La trasmissione si può ascoltare all'indirizzo

mercoledì 25 novembre 2015

La carne trasformata causa il cancro come il tabacco o il plutonio?

Dopo i titoli dei giornali e gli interventi di esperti seguiti all’opinione pubblicata dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) sull’evidenza del ruolo che le carni trasformate hanno nello sviluppo di certi tipi di cancro, possono essere interessanti alcune considerazioni “quantitative”. Perciò abbiamo ascoltato la puntata di “MORE OR LESS”, BBC4, dedicata a questo argomento (http://www.bbc.co.uk/programmes/b006qshd).


Sotto la lente ci sono le carni “trasformate attraverso salatura, fermentazione, affumicatura, e altri processi finalizzati a migliorare sapore e conservazione con sostanze chimiche o aromatizzanti”. Tra virgolette citiamo la definizione che compare nel comunicato stampa n° 240 della IARC (l’originale in inglese è disponibile su http://www.iarc.fr). In questo rapporto la IARC dichiara che “le carni trasformate sono cancerogene per gli esseri umani in base a evidenza sufficiente negli esseri umani che il consumo di carni trasformate causa il cancro del colon-retto”. Cioè esiste una statisticamente significativa quantità di evidenza che le carni trasformate provochino il cancro. Questa valutazione, che si basa sulla letteratura già esistente sull’argomento, pone le carni trasformate nel Gruppo 1 di agenti testati da IARC, insieme a tanti altri tra cui, per esempio, il fumo attivo di tabacco e il plutonio radioattivo. Gli agenti inseriti nel Gruppo 1 hanno in comune la comprovata capacità di provocare il cancro. Tuttavia, non provocano lo stesso numero di casi di cancro, cioè a ognuno di essi è associato un rischio diverso (http://www.iarc.fr/en/media-centre/iarcnews/pdf/Monographs-Q&A.pdf). Come conferma uno degli autori del comunicato stampa, il Professor Paolo Vineis, Imperial College, Londra, questa valutazione è di tipo “qualitativo”.
Invece l’altra affermazione statistica che compare in questo rapporto è esplicitamente quantitativa: “ogni porzione da 50 grammi di carne trasformata consumata al giorno aumenta del 18% il rischio di cancro al colon-retto […] e il rischio aumenta all’aumentare della quantità di carne” (https://www.iarc.fr/en/media-centre/pr/2015/pdfs/pr240_E.pdf).

Suona allarmante, però il messaggio sembra chiaro: meno, e meno frequentemente, mangiamo carne trasformata meglio è. Invece, secondo il professor Kevin McConway, statistico della Open University, questo dato non può essere interpretato senza considerare il rischio individuale di sviluppare quel tipo di cancro durante l’intera vita, rischio che è diverso per esempio a cominciare dal sesso: in Gran Bretagna un uomo su 15 potrà sviluppare il cancro al colon-retto; tra le donne, una su 19. McConway ricalcola il rischio tenendo presente il summenzionato 18%: negli uomini diventerebbe un individuo su 13. Tuttavia, secondo il professor McConway, questo non significa che il rischio corso da una particolare persona cresca “se mangia il bacon”.

Infatti, oltre al sesso, conta anche la familiarità e, per quanto riguarda lo stile di vita, oltre al consumo di carni trasformate e di carni rosse, tra i fattori di rischio per il cancro dell’intestino ci sono la mancanza di attività fisica, una dieta povera di frutta fresca e vegetali, l’abitudine al fumo, e un eccessivo consumo di alcol. Possono poi essere a maggior rischio le persone con diabete, con una storia di morbo di Crohn, o di colite ulcerosa, o persone a cui sono stati rimossi dei polipi.
Con tutti questi fattori in gioco il quadro è molto meno chiaro. E si fa più confuso quando la trasmissione ci racconta che, in Gran Bretagna, il 19% di tutti i tipi di cancro sono dovuti al fumo, mentre solo il 3% sono attribuibili al consumo di carni trasformate e di carne rossa.
Questi dati ci dicono che fumare pone maggiormente a rischio la salute rispetto a mangiare quei tipi di carne. Ragioniamoci: secondo i numeri enunciati, il consumo di carni trasformate e di carni rosse ha provocato 3 casi di cancro (non si specifica il tipo) su 100 in Gran Bretagna mentre il fumo ne ha provocati molti di più. Ne deriva che mangiare questo tipo di alimenti è meno rischioso che fumare. Ma allora come inserire in questo quadro il fatto che il fumo è uno dei fattori di rischio del cancro dell’intestino (www.bowelcanceruk.org.uk e www.cancer.gov )?

Ricordando le considerazioni dello statistico - siamo tutti diversi rispetto al rischio che corriamo di ammalarci di cancro - e mettendo insieme le varie informazioni esposte qui, è evidente che l’entità di quel rischio dipende anche da una molteplicità di fattori legati a dieta e stile di vita. A questo punto si amplia il campo delle scelte preventive e molte di esse ricadono nel campo delle scelte alimentari. Torna utile citare le Linee Guida per una Sana Alimentazione Italiana che spingono verso un’alimentazione ricca di tutte le fonti naturali di fibre: cereali integrali, legumi, frutta e verdura, e povera, tra le altre cose, anche di carni trasformate. Queste sono pericolose quando non incluse in una dieta varia e nutrizionalmente equilibrata e quando l’individuo è esposto ad altri fattori di rischio. Il suggerimento attuale è di consumare le carni trasformate una, massimo due, volte alla settimana. Questo limite da un punto di vista pratico può suonare irritante, poiché abbiamo preso l’abitudine di fare di una porzione di, ad esempio, prosciutto cotto un secondo di carne “salvacena”, anche quando a tavola ci sono bambini. Occorre invece darsi da fare, e sostituire più spesso che si può quella carne trasformata con qualcos’altro.


Ogni anno nel mondo muoiono 694000 persone a causa del  cancro al colon-retto (http://www.europacolon.com). I fattori che aumentano il rischio sono tanti e tra di essi c’è il consumo eccessivo di carne trasformata. Tuttavia c’è molto spazio per provare a prevenire, perciò dissentiamo dall’opinione (riferita da MORE OR LESS) dell’organizzazione non-profit Colon Cancer Canada, che sostiene che per salvare vite occorre diffondere la pratica dello screening “invece di tormentarsi riguardo alla quantità di bacon e salsicce che la gente consuma”. Gli screening sono molto importanti ma, per aumentare la probabilità che siano negativi, vale la pena soffermarsi sulle abitudini e impegnarsi a modificarle se ci accorgiamo che esse ci espongono a maggiori rischi.